Rosa Alice Branco

Poesie in lingua Italiana (IT)

ARTE POETICA

Mi piacerebbe iniziare con una domanda
oppure con il semplice fatto
che le rose che si vedono da qui
entrano nella poesia.

Cos’è allora una poesia?
un tessuto di orifizi da cui entra il corpo
seduto a tavola e il modo
con cui le rose mi sbirciano dalla finestra?

Fuori un giardiniere lavora,
un bimbo corre, una goccia di rugiada
è appena evaporata e l’umidità dell’aria
non entra nella poesia.

Domani sarà appassita quella rosa:
potrà scegliere l’epitaffio, la mano che la seppellisca
e poi entrare in un’aiuola della poesia,
mentre un bocciolo si dischiude in verso libero
là fuori dove pulsa il rumore del giorno.

Cosa sono le rose dentro e fuori
la poesia? Dove sono io nel verso in cui
il bambino si è buttato a terra stanco di correre?
Ed è l’ora di pranzo del giardiniere!
Come se fosse indifferente che la goccia di rugiada
sia entrata o meno nella poesia.

DOVE SEI O NON

a Joni

Vetrine, caffè dalle grandi vetrate, città trasparente
con croissants che si sfogliano in bocca
e i libri tra le dita. Tutto ci guardava
con gola e senza destino. Il tuo riso continua a ridere
sulle vetrine, ma la giacca giace appesa alla gruccia.
Lei viene ad accarezzarla di notte, a raccogliere il profumo,
il gusto del bacio nelle fotografie, le parole
che hai lasciato scritte e quelle che avresti scritto.
Ma di giorno le cose rimangono intoccate
e lei s’affretta ad arrivare a casa perché è insopportabile
la solitudine dei libri, dei dischi impilati.
A volte sappiamo che sei morto
e allora moriamo tutti insieme. Ma il corpo continua
a mangiare e a lavarsi i denti, va a lavorare e torna,
e in casa sei in tutto, e così assente.
Il peggio è che non sappiamo nulla, dove sei o non.
Ci chiediamo l’un l’altro come è stato possibile
e continuiamo a sperare l’impossibile.
Fino ad allora, ci feriremo i piedi, accentuando le piaghe.
Quando siamo vivi
fingiamo che non sia morto il cuore.

NOMADI DELL’ALTRO

È così che respira (in lui), così che diffonde
il giorno nel seguente come una cartina aperta
sul tempo. Non è di questo che si muore:
dell’inesistenza di una spiegazione per ciò che sa (lei).
La morte deve essere un’altra cosa che abbiamo inventato:
dare un nome a ciò che manca, salvare qualcuno di spalle.
Lei gira il viso (nelle mani di lui) getta lo sguardo
in terra per sentire la pietra, la larva nel bicchiere,
l’odore della pagina nel libro aperto a metà.
Sente l’odore (di lui?) in quella pagina. Chiede
dove sarà nel prossimo capitolo come se scrivere
lo facesse ritardare. L’uno nomade dell’altro
attraversano i giorni incollati alla pelle che svestono
sul far della sera. Un organo, un sentimento, una riga
in verso: tutto si confonde in un solo corpo.
Gli bacia il piede (che ora è lei).
Segue il giro vita con le mani, scioglie le gambe
con l’esattezza dei denti.
Stridono le viscere, strappata la carne
dai capelli, e s’addormentano sventrati
nei sapori dell’estate. Ma non è la morte
che disfa il corpo. La morte è ciò che abbiamo inventato
per non prendercene cura. Nomadi di tutto
(e anche di loro stessi) saltano con le rane sulle ciliegie.
Sembra giorno sul lenzuolo caduto, il giorno che si alza
in disordine con un bacio incollato al risvolto.
La riga della lingua sulla pelle (dentro di lei) è il rischio
che corrono i giorni di diventare soltanto belli.
Pagina illeggibile. Colorata dalla polpa delle ciliege.
Sudata fino all’ultima lettera, al primo gemito
(che di loro brucia) sul cuscino del mattino seguente.

LA PRIMA PIETRA

Si inclina in avanti e inciampa in ciò che è stato:
il salto del cavallo prima dello scacco matto, prima che la memoria
cambi la posizione delle radici. Come sfuggire al gioco vizioso
della memoria? Vi è una specie di futilità
necessaria a credere alla leggerezza.
Basta dire per esempio:
io ero soltanto un bambino quando ho lanciato la pietra
e la pietra era una nuvola bianca
e la nuvola non era il temporale.
S’è venuto a sapere che era un assassino,
o vendeva organi trafugati,
o ancora.
S’è preso qualche anno e buona condotta
(lei è diffidente, ma lui se ne va molto prima)
con i pezzi allineati sulla scacchiera.
E subito il pedone diventa cavallo: un salto crea l’innocenza,
i pezzi si librano nell’aria e poi cadono sopra
in movimento accelerato come è proprio della leggerezza.
Fu arrestato di nuovo e il caso si trascina
in tribunale e tra le sigarette in cortile.
Con le dovute differenze, non è ciò che tutti
facciamo? altrimenti perché mi trascinerei anch’io
tra ciò che sono stata e sarò? Mangi la regina
e tutto ciò che sono (lei ride disfatta)
mi sbatte il viso contro il pavimento della scacchiera.
Mi dibatto ancora con la bocca che sa di terra.
Qualsiasi inclinazione del mio corpo
è solo una bussola negli occhi di un cieco.

SUBITO DOPO I CORPI

Le luci accendono le case, case lontane
che scorrono col passare delle macchine
una ad una, mai accendono tutte insieme.
È come il corpo, ma il corpo comincia prima
della soglia delle case e agonizza all’imbrunire
quando le case implorano luce.
Il corpo ha il sapore della notte e muore poco prima.
Io so che l’hai già provata, quella sensazione delle case e del corpo
quando ancora pensiamo che si muoia di tristezza
e ci svegliamo il mattino seguente quasi allegri.
Alla fine era solo insonnia? Per tutto questo freddo
le cellule tremavano d’abbandono e nonostante l’angoscia
fosse mortale, ti addormentasti. Devo concludere che il dolore
è futile quando il sogno vince e ritempra?
Sai che stiamo parlando dell’umanità intera,
del contratto tra il peccato e il perdono
per poter ricominciare immacolati. Credi proprio
che tutto il male abbia una soluzione? Quando guardo dalla finestra
penso che è la terra ad agonizzare attorno alla casa.
Gli alberi sfilano l’inverno e fa notte presto,
subito dopo i corpi ciechi di tristezza,
anoressici nei rami. A nulla serve che un filo di luce
brilli nell’acqua. I corpi sono indifferenti alla parola “quasi”
e le case scorrono veloci sulla strada come volti
che mendicano senso. (il dito che ora è pesce
si dibatte liberando squame chiare, e lei dice
come se parlasse a qualcuno:)
Anche di notte vedo soltanto la mia luce,
i fari che mi spandono sul nero dell’asfalto.
Temo che questo non sia altro che un circolo vizioso,
che non vi sia nulla al di fuori di questa trama,
che tutti i credenti siano privi di rifugio.

GRAVITAZIONE UNIVERSALE

Di nuovo il mare che attendo
seduta alla finestra che dà sulle rose.
Che dà su tutte le strade che ho percorso
con i tuoi passi. Sulla strada
dove abbiamo girato la testa per non vedere
l’uomo accasciato a terra.
Poi abbiamo mangiato a casa di un amico,
abbiamo bevuto e chiacchierato come se la vita fosse eterna.
Intorno la strada era pulita, priva di tracce
di sangue. Le luci sul mare lungo i due argini
e la tua mano sulla mia gamba. Lassù in cielo
un uomo sventrato cerca le sue ali.
Non so nulla degli angeli. Io che attendo il mare ogni giorno
credo alla rotazione della terra e alla legge di gravità.
Ma quando arrivi il corpo non ha peso
e le parole volano attorno a noi
fradice di sudore. E il mare arriva.

IN UN GIORNO DI INVERNO

Il macellaio è morto. Ha lasciato moglie,
due figli e carne fresca stesa come biancheria
sul filo. Mi ricordo con che orgoglio passava la mano
sul coppino Mi ricordo della pescivendola
che ci svegliava al mattino «pesce fresco
bello vivo» e come era caro il rantolo della sogliola.
Anche la lattuga è fresca dopo la morte,
il mazzo di cime di rapa, perfino dalle carote ci aspettiamo
che siano fresche lì nel piatto con la sogliola rigorosamente
separata dalle lische. Così fresco! Il macellaio
sarà sepolto dopo pranzo. Ora giace nella camera ardente
con il viso scoperto alla famiglia e ai curiosi. Il
macellaio è morto stanco, ma ora sta fresco:
è stato abbattuto ieri, sarà impacchettato alle quattro del pomeriggio.

PER MANO A QUALCUNO

Guardano dall’oblò. Immobili tra le nuvole.
Legati a una sedia fissata al pavimento.
Il tempo sale con l’aroma del caffè,
volteggia sul cucchiaino che li addolcisce.
Turbolenze, cinture allacciate.
Dieci ore che passano tra le voci in sordina.
Se sapessi, se potessi sapere tutto ciò che portano
nelle valigie. Ma anch’io sono nella stiva.
Dovrò scorrere sul tappeto finché non mi afferreranno.
Come un libro tascabile sbircio la città
per mano a qualcuno. Ho un segreto,
voglio dire, una combinazione. Ho gli organi
sparpagliati sul letto di una camera d’albergo.
Mani viaggiatrici mi chiudono i polmoni.
La città ritagliata dal clic della macchina
sarà loro per qualche giorno. A me resta la tomba
nell’armadio fino alla prossima reincarnazione.

ANCORA GIÀ VIVI?

La pera dolcemente sul piatto
e la melagrana che nessuno mangerà mai.
La temperatura della sala è fresca e le tue labbra
mordono distratte uno spicchio d’arancia.
Mi schizza il viso da così vicino, ma già lo inghiotti,
è già solo parte di te e più nulla di lui.
Lo spicchio d’arancia incrocia la mia bocca
e la risata liquida posa lo sguardo sul quadro:
la pera sospesa sulla parete tra la speranza di vita dell’olio
su tela e pensare che è stata colta così presto,
i pori di tinta sul colorito adolescente della carne.
La rotondità della mela è un’illusione della mia bocca
(pensa lei) mentre osservi nella melagrana imperitura
l’età delle cose che si raggrinzano. Osservo anche la polvere
sulla cornice delle tue dita prima di buttar fuori il seme.
Esco dalla sala e prendo la strada parallela a quella delle tue labbra.
Non ti incontrerò nell’infinito
perché cammino sul suolo e tu inacidisci sulla parete
sospeso a un filo dello spicchio d’arancia.

MARTEDI INCLUSI

La casa di Sibelius è chiusa il martedì.
A Tuusula, nel paesaggio di betulle
agitato solo dal vento, sulle acque serene
del lago Tuusula e del piccolo rumore degli insetti
e dei pesci che non affiorano alla superficie
Sibelius componeva appassionatamente,
martedì inclusi. Anche noi ascoltiamo Sibelius
qualsiasi giorno della settimana e vendono i cd
addirittura la domenica. A volte compongo parole
mentre ascolto Sibelius. È solo lo sfondo abile
su cui mi muovo, il fondo del lago Tuusula. In superficie
affiorano i resti della poesia, assieme ai passi
delle persone dall’altra parte del vetro, le file del traffico,
i clacson che infiammano gli orecchi. Mi stanno richiamando
alle loro vite, però mi manca lo sguardo che protegge,
le mani che guariscono. Possiedo solo questa mano assurda
che si distacca dal fondo e affiora alla cecità della superficie.

GIORNI MIGLIORI

La donna attende le notti e pure i giorni,
ravviva il fuoco nel mentre, ravviva l’attesa.
Una serie di cose la tengono legata, cose
che ha messo da parte per la vita e non servono più.
Chi serve è lei e serve Dio sgranando il rosario
per coloro che sono già lì.
Qui si tira avanti, si porta avanti la vita
verso l’altro lato mentre si attendono giorni migliori,
giorni meccanici, la fatica dei muscoli, la testa in pace
e la notte spossata, i pensieri spossati,
la sofferenza spossata desidera solo distendere il corpo
fino al mattino. Meglio così che un male peggiore,
il caffè caldo, il pane appena sfornato
come se fosse presto e le mani nel loro daffare
potessero rendere gloriosi i giorni, luminose le notti
che ha sognato e non servono più. Adesso solo l’attesa
e le cose che ha messo da parte per la morte.

MASCHIO LATINO: DISCORSO IN PRIMA PERSONA

Mi rivolgo all’area frontale della tua corteccia,
stimolo la tua generosità, forse qualche lacrima,
un’emozione che ti basti a giustificare anche questa.
No? Sono finito al guichet sbagliato,
o dovevo rivolgermi a un’altro ufficio?
In amore la burocrazia dovrebbe avere scorciatoie
meno rampe di scale e un che di comprensione,
evitare moduli, frasi trite e il tuo viso
da impiegata che richiede la pensione. Mi dirigo
al tuo corpo, lo prendo d’assalto, e capisco
che la burocrazia non è altro che una storia raccontata
male e che è così facile trovare il guichet giusto.

SMANTELLARE CERTEZZE

Adesso è difficile mentire, credere
che le parole possano non bruciare.
Sono stati troppi gli incendi
divampati di secolo in secolo.
Guarda come si assomigliano i loro volti,
la traccia di fuliggine che li sfigura
è una cometa fugace, ma noi sappiamo
che qualche parola è riuscita a passare attraverso il fuoco,
più magra dei corpi, più duplice,
piena di significato dai mille colori
e mille altri ancora da svelare. Quante volte
la serva ha scelto chi servire?
E per terra sempre lo stesso sangue,
sempre gli stessi occhi a smantellare
certezze. Non possiamo più credere
che le parole non sfigurino i corpi,
non attizzino. È tardi, e le parole che ci vestono
sono stanche. È tardi fin da Abele,
fin dal paradiso. E in questo tardo pomeriggio
qualcuno, da qualche parte, scrive una parola
che ancora non è stata scritta, una parola leggera
che ferisce i temporali, e benché sia tardi
è ugualmente presto e il domani inizia
con questa parola in cammino verso la sua polvere.

CASA A METÀ

Tolgo la fiamma dai cassetti. È il primo giorno
di autunno. E gli anni stanno nel fondo.
Prima non ero io. Era la casa in costruzione.
Io prima di me. Ora smantello l’estate,
i vestiti che volano, i piedi nudi accanto al vestito.
Il tempo si perde nel cambio di stagione
e in questa perdita qualcuno esiste in me.
Una voce ride in fondo all’armadio.
Il sole così basso, nell’ultimo cassetto.

TROMPE L’OEIL

Ci sono giorni in cui un albero solo
nasconde la foresta, una goccia
nasconde tutto il mare. Vado avanti e indietro
ma i miei passi sembrano di qualcuno
che è passato di lì.
E c’è sempre un albero, un ramo,
una foglia opaca più grande degli occhi
con cui ti vedo se potessi vederti.
Ci sono giorni in cui entri nei miei giorni.
E sillabo ogni goccia quando mi dissolvo
in schiuma e non distinguo il bianco
dal bianco del lenzuolo. È un’ignoranza
che mi salva e sento tutto ciò che vedo
come se lo vedessi dai miei o dai tuoi occhi.
O di chi non mi ha incrociato.
Per questo non domando dove sono
o dove sono le cose.
I gabbiani camminano frettolosi.
I lampioni s’accendono per la notte.
Chiudiamo gli occhi per riuscire a perderci.

PAROLE PER NON SAPERE

Si vive di dimenticanza in dimenticanza.
È così che si cancella il mare dalla città
e dalle viscere piene di grida depositate
sulla sabbia. Spoglie di guerra. Lotte quotidiane
che rodono le ossa. La casa occupa il giorno e le notti
si dimenticano il giorno appresso. La vedo camminare alla cieca
senz’ombra che la protegga. Senza luce che la renda visibile.
La vedo nel silenzio del pomeriggio come un arabesco
sul pavimento di casa. Palme inclinate.
È nell’acqua che la città anzitutto s’addormenta.
Dorme accesa, spolverizzata di luci e io non so
come si può vivere di spalle al mare.
Passare accanto, non passare. Prigioniera del cemento
e dell’abitudine che cementa i giorni. Invento parole
per non sapere. Mi avvolgo nel silenzio
per non sentire la casa gridare.

SILLABARE IL GIORNO

a Stephan Reckert

Ho da dire tutto e spreco parole
per riuscirvi. Non so se mi allontano
o se mi avvicino. Se qualche volta ho sfiorato
la pelle dell’essenziale. E mi domando sempre
perché di queste parole che mi si intestardiscono.
Il passato non è ciò che è stato fatto,
ma ciò che nessuna parola farà di nuovo.
Per questo leggo sempre nel futuro, ma non so
da quale lato del tempo scrivo. E se lo sapessi
continuerei a essere come un granchio perché ho solo
questa mano di parole. Sillabo i giorni
in ogni cosa che mi guarda quando mi accorgo
di vederla. È tutto. E non ci sono scuse per ciò che faccio.

LE VOCI DELI ALTRI

Al di là della siepe sento le corse e le risate
dei bambini, solo risate di bambini come se fosse muta
l’allegria degli altri, di chi corre soltanto verso l’autobus,
verso il lavoro, o corre semplicemente perché
la vita è prima di tutto qualcosa di muscolare
che paralizza il collo mentre fa muovere le gambe,
mentre fa muovere il braccio che timbra il cartellino. Sono le otto
della mattina e si sono già vinte maratone prima del caffè.

Al di là della siepe, una cameriera chiama,
la madre rimprovera, ma solo il giardiniere passa a volte
da questa parte, taglia l’erba, pota le rose,
dà al muro una consistenza verde che conserva
le vite al riparo dello sguardo. Ma attraverso l’intreccio delle foglie
passano voci e la traspirazione dei bambini appare
presto sulle foglie verdi mentre muti, gli altri,
si tuffano nell’abisso del mattino ed è invano
che le loro voci si dimenano laggiù sul fondo.

ULTIMA ORA: TSUNAMI

Allora è questo che ci è successo,
un caffè che raffredda fino alla fine della fine
degli intestini. Lo zucchero insolubile
come un’equazione che non abbiamo ancora risolto
mentre la città sperpera colori sulla tela
come se fossimo murati nel sole.
Dovrebbe essere inverno come l’altra volta,
le mani strette nella tua tasca
da cui entravamo quando faceva giorno.
C’era un balcone che dava sull’interno,
un pigiama precipitato in terra e un tintinnare
di moneta a imitare le nostre risate. Ci siamo addormentati
già tardi e il giorno dopo una esplosione di mare
ha irrotto dallo schermo e anche i vivi sono morti
con gli intestini inondati di caffè.

IL BACIO DELL’INFINITO

a Stephen Reckert

Ho una foglia sul ventre, uno sguardo
ferito sul ginocchio, un figlio che ride
sulla caviglia. Bevo acqua e attraverso la pelle
vedo i semi del giorno. Erba umida
sul braccio, sulla milza la fatica della notte.
La luce del fiume ramifica nei polmoni
il giorno che viene. Sono le cose che
non trovano, quelle che tremano sul girovita
e la lacrima che mi asciuga il piede.
Tutto ciò che ho letto e il cane della strada accanto
e la strada che attraversa le case e le case
con nomi a parte e le imposte delle finestre
che si aprono affinché io sia
tutto ciò che sento e vedo
o potrei sentire e vedere se fossi vicino.
Ma le cose camminano e arrivano
in sordina perché persino l’infinito
ci tocca il viso prima che ci addormentiamo.

(tradotte da Valeria Tocco)

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